LA PERSONA E GLI SCRITTI DI MARIA VALTORTA

   A cura di Emilio Pisani, con brani tratti in terza persona dall' Autobiografia e da altri Scritti di Maria Valtorta.

 

   Nascita e infanzia.

 

   Maria Valtorta nacque il 14 marzo 1897 a Caserta, dove i genitori, che erano lombardi, si trovavano temporaneamente. Suo padre, Giuseppe, nato a Mantova nel 1862, prestava servizio nel 19° Reggimento Cavalleggeri Guide con il grado di maresciallo capo armaiolo. Sua madre, Iside Fioravanzi, nata a Cremona nel 1861, era stata insegnante di francese. Maria rasentò la morte nel nascere ed ebbe per balia «una mercenaria» sciagurata. Rimase figlia unica.

   Aveva appena diciotto mesi quando si vide trasferita con i genitori da Caserta a Faenza, in Romagna; e dopo qualche anno, nel 1901, a Milano, dove fu messa a frequentare, all'età di quattro anni e mezzo, l'asilo delle suore Orsoline di via Lanzone. Qui cominciò a sorgere nella piccina «l'ansia di consolare Gesù facendosi simile a Lui nel dolore volontariamente patito per amore».

   Nell'ottobre del 1904, a sette anni, passò all'Istituto delle suore Marcelline, in via Venti Settembre, per iniziarvi le elementari, e subito si distinse come la prima della classe. Nello stesso Istituto, ma nella sede di via Quadronno, il 30 maggio 1905 ricevette il sacramento della Cresima dalle mani del santo cardinale Andrea Ferrari, il cui tocco le «infuse veramente lo Spirito d'amore».

   Dovendo suo padre continuare a seguire gli spostamenti del Reggimento, nel settembre del 1907 Maria si trovò trasferita a Voghera, dove frequentò le scuole comunali e, ogni giovedì, le lezioni di francese tenute da suore espulse dalla Francia per la legge Combes. Grazie a queste, la sua anima fu rimessa «in comunione con Dio», e nella prima domenica dell'ottobre 1908, a Casteggio, Maria fece la prima Comunione. Ma dovette provare il dolore di non avere accanto il padre che tanto amava, perché la sua presenza era stata giudicata «inutile» dalla mamma, donna terribilmente severa.

 

   In collegio a Monza.

   Sempre per il dispotismo materno, al quale si contrapponeva la mite arrendevolezza del padre, Maria dovette lasciare con dolore la casa a dodici anni, nel marzo 1909, per entrare in collegio. Ma si trattava del bellissimo Collegio Bianconi di Monza, delle Suore di Carità di Maria Ss. Bambina, dove ella finì col trovarsi

«benone». Il suo carattere, fatto «dì generosità, di fermezza, di fortezza, di fedeltà», le procurò il nomignolo di «valtortino». L'amore allo studio, all'ordine, all'ubbidienza, la faceva citare «a modello». Ma la mamma le impose di fare le Tecniche; e lei, che era negata per la matematica, non poté evitare una «solenne bocciatura», sottoponendosi poi ad uno

studio massacrante per recuperare il tempo perduto ed esaurire il programma classico «dove riusciva tanto bene».

   Dopo «cinque annate scolastiche e quattro anni solari», fu ancora la mamma a decretare la sua uscita dal collegio, nel febbraio del 1913. Doveva lasciare «quel nido di pace», e il suo «povero cuore, presago del futuro che lo attendeva, così martoriante, tremava di paura e di dolore». Dagli ultimi esercizi spirituali in collegio, tenuti dal vescovo mons. Cazzani, ella volle «trarre un frutto duraturo per tutta la sua prossima vita nel mondo e un programma per quella sua prossima vita». E il Signore, ancora una volta, non mancò di disvelarsi alla sua anima, facendo capire a Maria «quale doveva essere la sua vita in Dio, in rapporto a Dio, voluta da Dio».

 

   A Firenze.

   Nella primavera del 1913 la famiglia Valtorta si trasferiva a Firenze, questa volta non per seguire il Reggimento, ma perché Giuseppe andava in pensione per motivi di salute. Con suo padre Maria usciva spesso a visitare la città, e per conto proprio continuava a condurre la vita della collegiale, mentre la mamma non mancava di impartirle «gratuite lezioni di indifferenza religiosa».

   A Firenze, Maria conobbe Roberto. «Era bello, ricco, colto. Era anche molto buono, serio, quieto». Si vollero bene, «un bene muto, paziente, rispettoso». Ma la mamma di Maria volle troncare sul nascere quell'affettuosa amicizia. Una sorte analoga sarebbe toccata, nove anni più tardi, al fidanzamento con Mario, un simpatico giovane senza mamma, bisognoso di cure e di affetto per poter divenire «un bravo ragazzo, un bravo ufficiale».

   «Amare era per lei condizione inderogabile per poter vivere»; ma doveva andare a Dio «dopo aver visto quanto caduche sono le affezioni umane».

 

   Un sogno.

   Nella primavera del 1916, «in un periodo tremendo di disperazione e di desiderio», il Signore tornò ad attirarla a Sé con un sogno, che sarebbe rimasto «vivo» in Maria per tutta la vita. In una visione evangelica, che sembra anticipare le visioni non sognate della sua opera di scrittrice, Maria fu soccorsa da Gesù, le cui parole di monito e di pietà, unite al gesto di assoluzione e di benedizione, furono per lei «un lavacro che la purificava tutta». E si svegliò «con l'anima illuminata da qualcosa di non terreno».

 

   Infermiera samaritana.

   Ma il ritiro dal mondo era ancora lontano. Nel 1917 Maria entrò nelle file delle infermiere samaritane e per diciotto mesi prodigò le sue cure nell'ospedale militare di Firenze. Chiese di curare i soldati di truppa e non gli ufficiali, perché andava «per servire i sofferenti e non per civettare o trovare marito». Esercitando questa carità, si sentì come obbligata «dolcemente ad accostarsi sempre più a Dio».

 

   Colpita alle reni

   A segnare l'inizio della sua graduale immolazione, fu un gesto sconsiderato di violenza. Accadde il 17 marzo 1920. Passava per strada in compagnia della mamma, quando «fu colpita alle reni da un piccolo delinquente. Con una sbarra di ferro, levata ad un letto, le venne dietro e a tutta forza le dette una mazzata». Rimase a letto tre mesi, e fu l'assaggio della sua futura completa infermità.

 

   A Reggio Calabria.

   Nell'ottobre dello stesso anno si recò con i genitori a Reggio Calabria, ospite dei cugini Belfanti, proprietari di alberghi. Il suo spirito si ritemprò nella stupenda natura di quei luoghi, e il suo sano desiderio di apprendere trovò sfogo nella «bellissima raccolta di libri » della cugina Clotilde. E il Signore, questa volta, si servì di un libro per darle ancora «una spinta potente». Il Santo, di Antonio Fogazzaro, «incise un segno indelebile nel suo cuore; e un segno buono».

   A Reggio Calabria, Maria sperimentò in maniera più sensibile certe percezioni psichiche, che già negli anni precedenti aveva avvertito sotto forma di «premonizioni» e di altri «fatti strani». A Reggio, inoltre, riaffiorò il suo trasporto per San Francesco, che resterà una nota costante nella sua spiritualità. A Reggio, infine, vide distrutto, dalle macchinose arti della mamma, il suo fidanzamento con Mario.

   Tornata a Firenze il 2 agosto 1922, vi rimase ancora per due anni, schiacciata dai «ricordi amari».

 

   A Viareggio.

   Nel settembre del 1924 la famiglia Valtorta si trasferiva definitivamente a Viareggio, dove il 23 ottobre prese possesso della «casetta» appena acquistata.

   A Viareggio, Maria continuò a condurre vita ritirata, tranne «qualche corsa al mare e in pineta» e le uscite «per la spesa quotidiana» che le consentivano di «fare delle visitine a Gesù Sacramentato, senza attirare i fulmini materni»~.. Ma per lei era iniziato «un nuovo e diverso periodo di vita, in cui sempre più crebbe in Dio».

 

   Offerta all'Amore.

   Attratta dall'esempio di S. Teresa di Gesù Bambino, di cui lesse tutto d'un fiato la Storia di un'anima, il 28 gennaio 1925 si offrì vittima all'Amore misericordioso, rinnovando poi «ogni giorno» questo atto di offerta. Da quel momento crebbe a dismisura il suo amore per Gesù, fino a sentire la presenza di Lui nelle proprie parole e nelle proprie azioni.

 

   Ansia di apostolato.

   Sollecitata dall'ansia di servire il Signore, desiderò di entrare nella Compagnia di San Paolo, ma dovette accontentarsi di svolgere «un apostolato umile, nascosto, solo noto a Dio, corroborato più dal soffrire che dall'operare». Tuttavia, dal dicembre 1929, quando venne accolta nell'Azione Cattolica come delegata di cultura delle giovani, si mostrò subito attiva, lavorando con impegno e tenendo conferenze che attiravano ascoltatori sempre più numerosi, «anche fra i non praticanti».

 

   Offerta alla Giustizia e infermità completa.

   Intanto veniva maturando in lei la decisione di offrirsi vittima anche alla Giustizia divina, cui si preparava «con una vita sempre più pura e mortificata». Già da tempo aveva pronunciato i voti di verginità, povertà, ubbidienza. Compì il nuovo atto di offerta il 1° luglio 1931, e le sofferenze fisiche e spirituali la risparmiarono sempre meno.

   Il 4 gennaio 1933 fu l'ultimo giorno in cuì Maria, camminando con estrema fatica, poté uscire di casa. E dal 1° aprile 1934 non si levò più dal letto, dando inizio, in un «intenso trasporto d'amore», alla sua lunga e operosa infermità. Divenne «lo strumento nelle mani di Dio». La sua missione era «di soffrire, di espiare, di amare».

 

   La morte dei padre.

   Il 24 maggio 1935, in casa Valtorta entrò Marta Diciotti, che doveva diventare la compagna fedele di Maria, la «uditrice» dei suoi scritti, colei che l'avrebbe accudita e assistita amorevolmente fino alla morte.

   Ma alla consolazione di avere accanto una persona amica seguì subito i I grande dolore della morte del padre, avvenuta un mese dopo, il 30 giugno. «Aveva fatto sempre il suo    dovere con pazienza, con dolcezza, con carità, perdonando le offese, rendendo il bene per il male, superando i disgusti per chi lo misconosceva e lo feriva ad ogni minuto». Il dolore di non averlo potuto assistere negli ultimi istanti e di non poterlo vedere neppure da morto, fece stare Maria «fra morte e vita». La mamma, dopo le «stupide scene di amore tardivo», divenne ancora più dura e dispotica. «Essere padrona assoluta le aveva sconvolto il cervello».

   E Maria continuò, nel suo letto d'inferma, a soffrire e ad amare, rendendosi sempre disponibile alla volontà di Dio, consolando gli afflitti, raddrizzando i deviati nello spirito, ricevendo dolorose premonizioni sulla gravità del momento, in ogni caso rivelando la forza virile del carattere e la chiara intelligenza della mente fissa in Dio.

 

   Padre Migliorini e primi scritti.

   Nel 1942 ricevette la visita di un pio sacerdote, già missionario, il padre Romualdo M. Migliorini, dei Servi di Maria, che per quattro anni fu il suo direttore spirituale. Richiesta da lui, nel 1943 accettò di scrivere l'Autobiografia, a patto di poter dire «tutto il bene e tutto il male», in una vera apertura d'anima.

   Operosa, intelligente, dotata, Maria era portata ad interessarsi di tutto, né la forzata infermità le impediva di lavorare e di scrivere. Alle molte attitudini, specialmente femminili, univa il dono della scrittrice nata; e proprio questa spiccata capacità ella doveva mettere al completo servizio di Dio, amato fino all'immolazione di sé.

   Per impulso soprannaturale, il 23 aprile di quello stesso anno 1943, venerdì santo, iniziò a scrivere i «dettati», dopo avere appena ultimato l'Autobiografia.

 

   Morte della mamma.

   Dopo pochi mesi, il 4 ottobre, ignara di tanta sorte, moriva la mamma, da lei «amata di un amore che neppure le sue durezze avevano stancato o diminuito».

   In casa restavano ora Maria e Marta.

 

   Scrittrice mistica.

   La sua attività di scrittrice fu molto intensa dal 1943 al 1947 e si protrasse, in misura sempre più ridotta, fino al 1953. Perciò Maria scrisse soprattutto in periodo di guerra e di condizioni assai disagiate, compreso lo sfollamento, che la obbligò a trasferirsi a S. Andrea di Còmpito (frazione del comune di Capànnori in provincia di Lucca) il 24 aprile 1944, per fare ritorno alla diletta casa di Viareggio il 23 dicembre dello stesso anno.

   Scriveva, stando quasi seduta nel letto, su comuni quaderni di scuola che poggiava ad un cartolare tenuto sulle ginocchia. Si metteva a scrivere in qualsiasi momento, sia di giorno che di notte, anche se era stremata dalla stanchezza o tormentata dalla sofferenza. Scriveva di getto, con naturalezza e senza rivedere. Se veniva interrotta, poteva sospendere per poi riprendere a scrivere con disinvoltura. Non consultava libri, tranne la Bibbia e il Catechismo di papa Pio X.

   La sua missione di scrittrice non la isolò dal mondo. Non le furono estranee la vita e le ansie delle persone vicine, che aiutava con illuminato consiglio e, se occorreva, con nascosti ed eroici sacrifici che miracolosamente risolvevano casi angosciosi. Non era indifferente alle sorti della nazione che tanto amava, né si sottraeva ai suoi doveri di cittadina, fino al punto di farsi portare in ambulanza al seggio elettorale il 18 aprile 1948.

   Nel lavoro continuo, nella preghiera viva e costante, nel dolore accolto con la gioia dei redentori, Maria chiedeva a Dio di non concederle segni esteriori della sua intensa partecipazione a Cristo, il quale la usò come fedele «portavoce» e come «penna», manifestandosi nella ricchezza delle «visioni» e nella profondità dei «dettati».

 

   Le opere.

   Sono circa quindicimila le pagine di quaderno vergate da Maria Valtorta. Poco meno di due terzi, di questa sorprendente produzione letteraria, riguarda la monumentale opera sulla vita di Gesù ("L'Evangelo come mi è stato rivelato", nuova edizione de "Il poema dell'Uomo-Dio"). Le opere minori comprendono vasti commenti di brani biblici, lezioni di dottrina, storie di primi cristiani e martiri, componimenti di pietà.

   «Posso asserire - si legge in una dichiarazione della Valtorta - che non ho avuto fonti umane per poter sapere ciò che scrivo, e ciò che, anche scrivendo, non comprendo molte volte».

   Accanto alla produzione altamente ispirata, della quale non si considerava autrice, Maria Valtorta ci ha lasciato interessanti scritti autobiografici e un ricco epistolario, che ci svelano la sua forte personalità umana, volutamente posta al servizio eroico e santo di Dio per il bene di tutti.

 

   Offerta dell'intelligenza.

   Il 18 aprile 1949 Maria offriva a Dio il sacrificio di non vedere l'approvazione ecclesiastica dell'Opera, e univa il prezioso dono della propria intelligenza. Il Signore dovette prenderla in parola se, dopo aver visto l'Opera «bloccata», Maria andò chiudendosi per gradi, a partire forse dal 1956, in una sorta di isolamento psichico.

   Un primo segno di quella sua condizione fu l'uso esagerato delle maiuscole nelle lettere che scriveva. Seguì la mania di riempire le immaginette religiose, e in genere i pezzi di carta che le capitavano sotto mano, con giaculatorie come: «Gesù, io confido in te», delle quali faceva a volte il computo delle indulgenze acquistate.

   Finì col restare del tutto inoperosa, lei che scrivendo, lavorando o pregando, non aveva mai oziato nel letto. Agli interlocutori cominciò a rispondere a sproposito, e a volte esternava la sua congeniale arguzia senza controllarne l'opportunità. Ma parlava sempre di meno, fino al punto di limitarsi a ripetere meccanicamente il saluto o le ultime parole di una frase che si sentiva rivolgere, facendo cadere ogni tentativo di dialogo. Di tanto in tanto emetteva dei gridii o esclamava: «Che sole che c'è lì».

   Eppure, conservava uno sguardo lucido e un atteggiamento tranquillo. Non chiedeva mai nulla e si lasciava imboccare come una bambina. Interpellata in qualche circostanza grave per i suoi scritti, dava una risposta breve e azzeccata, quasi scuotendosì per un attimo da quello stato di incomunicabilità.

 

   Morte e sepoltura.

   Il 16 settembre 1961, per le peggiorate condizioni di salute, Maria venne trasportata in ambulanza a Pisa e ricoverata nella Clinica delle Serve di Maria Addolorata, dove rimase fino alla fine del mese.

   Tornata, senza alcun segno di ripresa, nella sua camera di Viareggio, vi sì spense alle ore 10,35 del 12 ottobre 1961, nel 65° anno di vita e nel 280 d'infermità. Al suo capezzale di morente era stato chiamato il padre Innocenzo M. Rovetti, Correttore del Terz'Ordíne dei Servi di Maria, al quale ella apparteneva oltre che al Terz'Ordine Francescano. Nell'attimo in cui il sacerdote, pregando, pronunciò le parole: Proficiscere, anima christiana, de hoc mundo (Parti, o anima cristiana, da questo mondo), Maria spirò. Parve proprio l'estremo suo atto di ubbidienza.

   Da uno scritto del 1944 sappiamo che Gesù le aveva detto: «Come sarai felice quando ti accorgerai di essere nel mio mondo per sempre, e d'esservi venuta, dal povero mondo, senza neppure essertene accorta, passando da una visione alla realtà, come un piccolo che sogna la mamma e che si sveglia con la mamma che lo stringe al cuore. Così lo farò con te».

   La salma venne composta nella stessa camera e sullo stesso letto che avevano visto le sofferenze, l'operosità, gli atti di offerta e la pia morte della scrittrice inferma, la quale da vari anni aveva predisposto l'abito per la propria sepoltura, il velo del battesimo che avrebbe dovuto coprirle il capo, la frase da mettere sui ricordini: «Ho finito di soffrire, ma continuerò ad amare». 1 pochi e raccolti visitatori poterono ammirare il candore della sua mano destra (la mano di colei che si era definita «penna del Signore») mentre la sinistra andava illividendo. E le ginocchia, che erano state il suo scrittoio, apparivano inarcate sotto la veste bianca, ora che Maria era distesa nel riposo della morte.

   Il 14 ottobre si svolsero i funerali, di primo mattino e con semplicità, secondo le disposizioni che Maria stessa aveva da tempo lasciate. Dopo il sacro rito celebrato nella parrocchia di San Paolino, un breve corteo di automobili accompagnò la salma al Camposanto della Misericordia, dove la bara venne interrata.

 

   Esumazione e sepoltura privilegiata.

   Dieci anni dopo, il 12 ottobre 1971, i suoi Resti mortali furono esumati dalla terra e messi nel loculo dei genitori. Ma il 2 luglio 1973, ottenuti i permessi civili ed ecclesiastici, vennero traslati da Viareggio a Firenze, per essere tumulati nella Cappella del Capitolo al Chiostro Grande della Basilica della SS. Annunziata, dove tuttora si venera la tomba di Maria Valtorta.

 

   Diffusione degli scritti.

   Gli scritti di Maria Valtorta cominciarono ad essere pubblicati negli ultimi anni di vita della scrittrice e senza il suo nome. Ben presto essi hanno raggiunto le vie del mondo, diffondendosi in Italia e penetrando all'estero, fin nei Paesi più lontani, senza pubblicità, con la sola forza del loro messaggio dì verità e di amore, che conquista gli uomini e li rende migliori.

   Nel «dettato» del 23 agosto 1943 troviamo le seguenti parole di Gesù alla scrittrice: «Ci vuole buon senso nell'usare del dono mio. Non un'aperta e risuonante diffusione, ma un lento effondere sempre più vasto, e che sia senza nome. Quando la tua mano sarà ferma nella pace in attesa di risorgere nella gloria, allora, solo allora verrà fatto il tuo nome».

 

   «L'Evangelo come mi è stato rivelato (Il poema dell'Uomo-Dio)».

   L'Opera maggiore è una grande Vita di Gesù, la cui narrazione si estende dalla nascita e infanzia della Madonna alla sua assunzione al Cielo.

   Definita negli scritti valtortiani: «Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo come è stato rivelato al piccolo Giovanni», si ritenne, al momento della sua pubblicazione, di chiamarla più semplicemente “Il poema di Gesù”. Ma poiché venne intimato all'editore di cambiare quel titolo, che già apparteneva ad un volumetto di poesie pubblicato da un'altra casa editrice, si pensò di ritoccarlo in “Il poema dell'Uomo-Dio”, e tale è rimasto fino alla nuova edizione “L'Evangelo come mi è stato rivelato”.

   E', tuttavia, un «vangelo» che non sostituisce e non riforma il Vangelo, ma lo narra, lo integra ampiamente e lo illumina, con lo scopo dichiarato di ravvivare negli uomini l'amore a Cristo e alla Madre sua.

   Ed è stato «rivelato» a Maria Valtorta, chiamata «piccolo Giovanni». Giovanni, per accostarla all'evangelista che fu il prediletto tra i discepoli. Piccolo, per la dipendenza della sua pur grande Opera dagli evangelisti, che nel poco scritto racchiusero l'essenziale.

 

       Tutti gli scritti di Maria Valtorta sono editi dal Centro Editoriale Valtortiano

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